Antonio Canova

vita e opere del grande scultore del Neoclassicismo





Venere e Adone

La scultura Venere e Adone fu realizzata da Antonio Canova tra il 1789 e il 1794, su commissione del marchese Francesco Berio, che la collocò in un tempietto espressamente realizzato nel giardino del suo palazzo a Napoli. Alla morte del marchese, l’opera fu acquistata su suggerimento dello stesso Canova dal colonnello Guillaume Favre. Attualmente si trova a Ginevra presso il Musée d’Art et d’Histoire.


Venere e Adone

La scultura Venere e Adone fu realizzata da Antonio Canova tra il 1789 e il 1794, su commissione del marchese Francesco Berio, che la collocò in un tempietto espressamente realizzato nel giardino del suo palazzo a Napoli. Alla morte del marchese, l’opera fu acquistata su suggerimento dello stesso Canova dal colonnello Guillaume Favre. Attualmente si trova a Ginevra presso il Musée d’Art et d’Histoire.


L’artista, ancora una volta, sceglie un soggetto appartenente alla mitologia greca. Adone, frutto dell’unione incestuosa tra Mirra e il padre Cinira, nacque dall’arbusto nel quale la madre era stata trasformata, condannata ad un eterno dolore. 
Crescendo, il giovane raggiunse una così rara bellezza che perfino Venere si innamorò di lui. Da sempre la passione del ragazzo, cresciuto nelle selve, era la caccia e nonostante i continui avvertimenti dell’amata, non vi rinunciava. 
Si narra che la dea cercava in tutti i modi di dissuaderlo, di salvarlo dai pericoli, di difenderlo dall’attacco delle belve. Ma, come profetizzato, un cinghiale, durante una battuta di caccia, lo azzannò e lo uccise.

Il momento scelto dall’artista è quello del congedo, che si rivelerà poi essere il preannunciato e ultimo saluto, l’istante prima del compimento dell’atroce destino. Non è il momento di massimo pathos del racconto, ma quello che lo anticipa, creando così, secondo i canoni neoclassici, uno stato di assoluto rigore ed equilibrio.

L’opera si può ritenere il suo capolavoro nel genere “delicato e gentile”, in cui la concezione winckelmanniana della grazia e del bello ideale, fatta propria dall’artista, si esprime al più alto grado. La figura predominante del gruppo scultoreo è quella maschile, più alta, su cui si appoggia Venere come fosse una colonna. 
Il dardo che il protagonista stringe con la mano destra è quello che userà per affrontare la bestia, anche se nel mito non è specificato di quale arma si trattasse realmente.
 La sua espressione è dominata da una lieve malinconia, ma anche da un flebile sorriso come se volesse rassicurare la dea stringendola a sé con un tenero abbraccio.
Venere è completamente spogliata del suo essere divino ed è percepita come semplice creatura umana.
E’ una donna preoccupata dal presentimento di ciò che potrebbe accadere, immersa in un senso di protezione che si manifesta in una dolcissima e delicata carezza sul volto dell’amato. 
Il cane ai lori piedi, reso con singolare perspicuità naturalistica, richiama la caccia. Il suo pelo ruvido crea un contrasto netto con l’epidermide liscia dei due personaggi.
 Una scena al di fuori del mito e del divismo dunque, appartenente all’amore terreno.

1794, Marmo

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