Antonio Canova

vita e opere del grande scultore del Neoclassicismo





La Venere italica

La scultura in marmo del I secolo a.C. che, già esposta al centro della Tribuna degli Uffizi, l’11 settembre dello stesso anno era stata requisita dalle autorità francesi per essere destinata al Louvre.


La Venere italica

L'opera fu realizzata come compensazione per il trasferimento in Francia della Venere de' Medici, rastrellata dai francesi tra i furti napoleonici. A tale opera lo scultore si ispirò idealmente, a livello più che altro spirituale, cercando di rievocarne la tenerezza della carne, il suo dolce vibrare, il movimento nello spazio, che rende attraverso l'articolazione libera del corpo e la delicatezza delle sfumature. Lo scultore stese un impasto morbido e rosato per esaltare meglio la bellezza del corpo della dea, nell'atto di nascondersi dietro ad un telo, probabilmente sorpresa dall'arrivo di qualcuno, secondo il tema classico della Venus pudica.

La sua tecnica unica e la capacità di realizzare l'illusione della carne umana è stata chiamata "tocco diretto". Alla fine Canova avrebbe iniziato a esporre le sue opere in studio a lume di candela. Incuriosito dagli effetti della luce e dell'ombra delle candele sulla superficie in marmo traslucido, Canova iniziò presto ad ammorbidire ulteriormente le transizioni tra le varie parti della statua e strofinarle con strumenti speciali e pietra pomice, a volte per settimane o mesi. Alla fine avrebbe applicato un composto sconosciuto di patina sulla carne della scultura per alleggerire il tono della pelle. Questo processo è stato chiamato "ultimo tocco".

Secondo il critico d'arte Edward Lucie-Smith, l'espressione artistica del pudore e della vulnerabilità anche sessuale è comunicata meglio che sull'originale Venere de' Medici. La maggior parte degli spettatori ha notato l'abilità superiore di Canova su superfici e trame di marmo. Ugo Foscolo farà un confronto tra le due opere, quella del Canova e quella antica, e dirà della prima: "Lusinga il paradiso in questa valle di lacrime", volendo esprimere con queste parole la superiorità della statua dello scultore neoclassico, questa dea più reale, quindi più desiderabile.

Si noti come anche in quest'opera c'è una voluta adesione alle teorie dello studioso tedesco Johann Joachim Winckelmann: la ricerca del bello ideale, la lontananza dallo sconvolgimento delle passioni e delle emozioni, sono presenti solo la "nobile semplicità e la quieta grandezza".

 

Sebbene fosse stata spedita per sicurezza da Firenze a Palermo, e affidata in custodia ai Borboni di Napoli per scampare alla sorte del trattato, anche l’Afrodìte Medici, tra le più celebri statue della Grecia classica (la sua presenza è documentata per la prima volta nel 1638 a Roma, a Villa Medici, da cui il nome) fu sottratta dai commissari francesi del Direttorio che la inviarono a Parigi per volere di Napoleone. Inizialmente, il re d’Etruria, Ludovico I di Borbone, valutò di commissionare a Canova una semplice copia ma l’artista preferì eseguire un’opera del tutto originale.

 

Nel 1802, di passaggio a Firenze e al culmine della sua notorietà, Antonio Canova ricevette dal re di Etruria, Ludovico di Borbone, l’incarico di eseguire una copia della Venere dei Medici, la scultura in marmo del I secolo a.C. che, già esposta al centro della Tribuna degli Uffizi, l’11 settembre dello stesso anno era stata requisita dalle autorità francesi per essere destinata al Louvre. Dapprima riluttante all’idea della replica, lo scultore veneto alla fine accettò, allettato sia dalla proposta di sostituire un tale capolavoro, sia dalla forte connotazione patriottica che da subito aveva assunto l’impresa. Tuttavia nel frattempo Canova ebbe l’idea di sfidare la statua antica con una Venere in piedi, stavolta di sua invenzione. Questa prestigiosa commissione gli fu confermata nel 1805 dalla regina reggente d’Etruria, Maria Luisa di Borbone e si finì per accantonare l’idea di una riproduzione dell’antica. Nel 1809 la nuova sovrana Elisa Baciocchi, appena insediata come Granduchessa di Toscana dal fratello Napoleone, riuscì a convincere l’imperatore a pagare a Canova i 25000 franchi convenuti ed il 29 aprile del 1812 la Venere Italica raggiunse la Tribuna dell’Imperiale Galleria di Firenze ma, anziché sul piedistallo della statua medicea portata in Francia, fu collocata su una nuova base girevole, per far risaltare la novità della creazione. La divinità canoviana si discostava infatti dall’illustre modello, essendo raffigurata nel momento in cui si asciuga pudicamente dopo essere uscita dal bagno, con ai suoi piedi il vaso di unguenti profumati. La nuova scultura, la cui modernità era stata evidenziata fin da subito rispetto al prototipo antico, riscosse un enorme successo, che la rese oggetto di una vasta letteratura critica e protagonista di numerosi sonetti, tra cui quello di Giovanni Rosini, che la battezzò col titolo di “Italica”. Ugo Foscolo, nel contrapporla alla Venere medicea, la definì “una bellissima donna, capace di far innamorare, mentre l’antica è un’impassibile, seppure bellissima, Dea”. Nell’opera canoviana infatti la grazia naturale è accentuata rispetto alla convenzionalità del bello ideale espresso nell’esemplare ellenistico, grazie alla posa più dinamica e alle dimensioni leggermente maggiori, che la rendono alta quanto una donna reale.

Dopo la caduta di Napoleone, nel 1815 Canova si recò a Parigi come emissario dello stato pontificio per trattare la restituzione delle opere sottratte dal Bonaparte e la Venere antica riprese il suo posto nella Tribuna, mentre l’Italica, ormai spodestata, fu trasferita a Palazzo Pitti.

 

 

Come già la Venere Medici, di cui questa canoviana ripropone il modello, la Venere italica del Canova (1804) è colta in una posizione pudica, mentre si copre il seno per ripararsi da sguardi indiscreti. Il tema di Venere al bagno è un puro pretesto per la rappresentazione del nudo femminile atteggiato in modo delicato e sensuale.

 

 

Ugo Foscolo

La statua canoviana fu straordinariamente apprezzata dal poeta Ugo Foscolo, che ricordando la Venere italica confessò: «Io dunque ho visitata, e rivisitata, e amoreggiata, e baciata, e, ma che nessuno il risappia, ho anche una volta accarezzata, questa Venere nuova». E aggiunse: «Se la Venere dei Medici è bellissima dea, questa ch’io guardo e riguardo è bellissima donna; l’una mi faceva sperare il paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del paradiso anche in questa valle di lacrime». All’opera fu riservato con tutti gli onori il posto del capolavoro perduto agli Uffizi; e quando la Venere Medici tornò a Firenze, fu trasferita a Palazzo Pitti, dove ancora si trova.

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